Un libro per ridefinire il significato della restanza, atto politico e rigenerativo contro l’abbandono dei territori
Agli appassionati rigeneratori di aree interne il nome di Vito Teti, docente di Antropologia Culturale, è ben noto. È stato lui a sdoganare il termine “restanza” e a dedicarvi un intero saggio (“La restanza“, 2022), recentemente pubblicato da Einaudi. Poco più di 150 pagine per un denso volumetto che ridefinisce il senso del termine “restare”, lavorando sulle sue sfumature semantiche ed emotive.
La restanza, per Teti, è la volontà di rimanere in un posto con il desiderio di migliorarlo e renderlo abitabile. Si tratta di una scelta attiva, non di una costrizione rassegnata né di un sintomo di automatismo esistenziale. Spesso la fuga dell’emigrato da un territorio poco fertile – di idee, di possibilità – viene esaltata come un atto coraggioso: Teti ribalta questa prospettiva, mostrando il coraggio insito nell’atto di rimanere per resistere alla devastazione e all’abbandono dei luoghi. Il restare diventa anche una pratica etica perché significa presidiare un territorio, riscoprire quell’attenzione nella sua cura che è la risposta alla crisi ecologica che stiamo attraversando. Restare per rigenerare.
Eppure, la restanza non è soltanto coraggio e passione. Spesso è anche dolore e nostalgia. Lo sa bene l’autore, tornato a vivere nel suo paese natale nel cuore della Calabria per scoprirlo svuotato dei suoi abitanti. Lo sanno bene quanti scelgono di rimanere e si ritrovano a combattere “una lotta quotidiana, fatta di piccoli gesti per salvaguardare e proteggere i luoghi che potrebbero essergli sottratti non da chi arriva da fuori, ma di chi vi abita dentro come un’anima morta”.
Restare è faticoso, richiede grande fermezza d’animo. Di fronte ai cambiamenti del proprio territorio ci si può sentire isolati in patria, percepire quella nostalgia, ribattezzata da Albrecht solastalgia, che si prova quando i luoghi circostanti vengono violati o abbandonati.
Secondo Teti, tuttavia, la restanza è una tendenza destinata ad affermarsi sempre più. Si tratta allora di accompagnarla con le giuste politiche, così da aiutare chi vuole rimanere a rigenerare i luoghi e costruire comunità. “I paesi non si rigenerano con gli slogan”, ammonisce l’antropologo. Non basta chiamarli “borghi”, esaltarne la fragilità commossa e vederli come fuga perfetta dalla folla e dalla confusione della città.
Occorre pensarli come luoghi abitabili e da abitare, in cui reinventare il tessuto sociale. Non ci sono soluzioni facili, ma tante necessità non contrattabili ben elencate da Teti: centri culturali, luoghi di socialità, servizi e scuole in ogni paese, anche il più piccolo.
Siamo ancora lontani dall’avere politiche strutturate e funzionali per promuovere una cultura della restanza. Eppure, Vito Teti scorge nei territori una scintilla, un barlume che somiglia alla rete RIFAI: un movimento diffuso che, collegando l’Italia dell’abbandono, adotta nuove pratiche per riabitate i territori.
E allora dedichiamo a voi rifaini le parole dell’autore, consigliandovi la lettura integrale della sua opera: