Restanza: il coraggio di chi Resta, per dare nuova vita a luoghi troppe volte dimenticati o abbandonati al loro destino.
Perché è importante parlare di restanza? Perché il nostro Paese è da decenni vittima – si è la parola adatta – di spopolamento. È definito come la diminuzione della popolazione di un’area a causa dell’abbandono volontario o forzato da parte dei suoi residenti.
Niente di nuovo, siamo tutti a conoscenza, purtroppo, del fatto che i piccoli centri italiani sono sempre più disabitati. Questo causa un invecchiamento della popolazione (sono giovani single e famiglie a partire), perché tanti si spostano all’estero. E anche quando rimangono in Italia, tra qualche anno saremo probabilmente circondati da paesi fantasma, mentre nelle città medie e nelle metropoli non c’è spazio per la gente che vuole abitarci.
I danni non si limitano a questo. Vi è una progressiva perdita delle tradizioni, tramandate oralmente di persona in persona; e vi è anche una perdita del senso delle origini. Ancora, aumenta il rischio di dissesto idrogeologico, specialmente nelle zone montane. Eppure è fondamentale contrastare lo spopolamento, per garantire la conservazione del patrimonio culturale dei piccoli centri (16% del totale nazionale), per tutelare la produzione agricola ed enogastronomica. Non solo, sarebbe anche conveniente, perché si possono trasformare certi luoghi in fruttuose opportunità turistiche.
Una volta c’era il sacrificio dell’emigrante e adesso c’è il sacrificio di chi resta. Una novità rispetto al passato, perché una volta si partiva per necessità ma c’era anche una tendenza a fuggire da un ambiente considerato ostile, chiuso, senza opportunità. Oggi i giovani sentono che possano esserci opportunità nuove, altri modelli e stili di vita, e che questi luoghi possono essere vivibili .
E’ finito il mito dell’altrove come paradiso. L’etica della restanza è vista anche come una scommessa, una disponibilità a mettersi in gioco e ad accogliere chi viene da fuori. Noi adesso viviamo in maniera rovesciata la situazione dei nostri padri e dei nostri nonni. Un tempo partivamo noi, oggi siamo noi che dobbiamo accogliere. (Vito Teti)
La restanza, nell’interpretazione di Teti, ha una dimensione duplice. La prima è la scelta di restare in sè, assistere all’abbandono dei proprio luoghi da parte degli altri, il coraggio di cercare o creare nuove opportunità. E la seconda dimensione è quella dell’accoglienza: infatti chi resta si ritrova spesso a vedere altri arrivare, emigranti come lo erano le generazioni prima di noi e lo sono altri ancora oggi. Quindi non necessariamente bisogna vivere l’erranza e la restanza come opposti, ma in realtà l’uno presuppone l’altro e viceversa.