Un incontro per costruire nuove consapevolezze intorno a un’azione fondamentale nel lavoro sui territori: la facilitazione
È la parola al cuore dell’acronimo RIFAI. Facilitatori. Eppure, quante volte ci siamo soffermati ad analizzare le mille sfumature di significato e la multidimensionalità delle azioni che porta con sé?
Ne abbiamo avuto l’occasione lo scorso venerdì 2 dicembre a Savigliano, durante l’incontro “Facilitazione: strumenti per il cambiamento”, organizzato dalla Rete RIFAI. Un prezioso momento di scambio e riflessione collettiva per attivare un percorso di consapevolezza, alla presenza di educatori di comunità e giovani che vogliono agire il cambiamento nei propri territori. A guidare la conversazione, il professore dell’Università di Torino Federico Zamengo e Nicolò Valenzano, entrambi membri del gruppo di ricerca “InnovCom. Research for Innovative Communities” e Paolo Caraccio, educatore professionale presso la cooperativa Proposta 80.
Gli strumenti della facilitazione
“Ma quindi, un facilitatore cosa fa?”. Se mai vi è capitato di sentirvi rivolgere questa domanda conoscete la difficoltà che comporta rispondervi. Descrivere la facilitazione è un compito arduo, perché comprende molteplici – e complementari – linee di azione. Vi è la componente di osservazione e ascolto della comunità e del territorio in cui si opera. Vi è quella di tessitura sociale, mediazione tra le parti, attivazione della partecipazione. E, infine, quella della costruzione, sia di risultati tangibili che di un orizzonte di senso per l’azione collettiva, attraverso una narrativa in cui la comunità sappia riconoscersi ed identificarsi.
Un facilitatore, come il timoniere di una nave, naviga la complessità e identifica i nessi che muovono il cambiamento. Per svolgere bene il suo compito deve affinare continuamente i propri strumenti, così da stimolare l’apertura della comunità, raccoglierne le istanze attraverso l’ascolto attivo, creare una visione condivisa. Deve disporre di una carta nautica dei pericoli, per seguire la metafora proposta da Caraccio, e analizzare i venti, ovvero le tendenze e le politiche attuali. E, cosa fondamentale, deve capire qual è il suo equipaggiamento, composto dalle competenze condivise dalla comunità.
Facilitare, sì… Ma cosa?
Per non perdere la rotta è fondamentale avere ben chiaro l’obiettivo del proprio lavoro. Un facilitatore mira al miglioramento della qualità della vita all’interno di una comunità e delle relazioni tra i suoi membri, che diventano parte integrante del cambiamento e padroni della direzione che questo prenderà. In poche parole, la facilitazione ha come obiettivo lo sviluppo di comunità.
Durante l’incontro si è riflettuto sulla differenza tra la figura del facilitatore e quella del promotore del cambiamento. Il confine è labile, e sta tutto nel compito che l’individuo si riconosce. Il promotore di cambiamento è un pioniere, un innovatore che sa di poter incontrare delle resistenze nel suo lavoro, perché la visione che ha per una certa realtà locale non sempre è desiderata o riconosciuta da tutti.
Un facilitatore, invece, basa ogni sua azione sul riconoscimento dei problemi di una comunità da parte della comunità stessa. Solo dopo aver condotto un’analisi partecipata della loro urgenza e della complessità della loro risoluzione individua le possibili strategie. Sono approcci diversi, e discutere di quale sia il migliore è controproducente. I territori hanno bisogno sia di innovatori con in testa una visione sia di facilitatori in grado di catalizzare le energie delle collettività.
Terminiamo l’incontro senza soluzioni semplicistiche in tasca, ma con nuovi stimoli e consapevolezze. Ancora una volta emerge l’importanza di simili momenti di confronto per avere più sguardi e idee transdisciplinari, creando un gruppo di supporto all’azione sui territori. Perché promuovere il cambiamento sui territori può diventare una sfida faticosa, ma se la si affronta con i giusti strumenti e con il sostegno di una rete allora non spaventa.